Siamo nel Cinquecento quando vive e opera Pietro Bembo, originario di Venezia (1470-1547) considerato da moltissimi studiosi di linguistica e filologia come la “Quarta Corona” poiché estremamente importante in quella espansione della lingua volgare (antenato della nostra attuale lingua italiana).
Bembo nasce in quel momento storica di ripresa dei classici (che erano stati un po’ abbandonati nel secolo precedente) e, da buon estimatore del classicismo elevato, si orienta verso la poesia di Petrarca e la prosa di Boccaccio.
Già perché Bembo non è un grande ammiratore del Sommo Poeta (Dante Alighieri) considerato come troppo incline a scelte linguistiche basse, popolari ecc. e quindi non all’altezza di poter essere elevato a riferimento sul quale fondare le regole sintattiche e linguistiche del volgare illustre. Pietro Bembo conosce bene i classici perché li studia da tempo: proprio lui ha pronti, nel 1512, i primi due libri delle Prose della volgar lingua che, però, non verrà pubblicata prima del 1525 e, per questo motivo, si vedrà “soffiare il primato” dal friulano Giovanni Fortunio che, nel 1516, Le regole grammaticali della volgar lingua , un’opera che risponde alle esigenze pratiche del lettore (non provenienti dalla Toscana) per poter accedere alle terminologie più corrette ecc.
Questo è il tempo in cui si concede moltissi mo spazio allo studio linguistico e filologico di quella che, si vorrebbe, divenisse la lingua italiana di riferimento per i testi alti, scientifici, tecnici…
Le prose della volgar lingua
L’opera più importante di Pietro Bembo sono le Prose della volgar lingua che vuole mettere ordine in un groviglio di linguaggi senza regolamentazione; dobbiamo, infatti, ricordare che in questo periodo di continua a fare ancora uso del latino che è considerata la lingua della Chiesa e delle pratiche ufficiali mentre il volgare, seppur “ripulito ed elevato” dalle Tre Corone, ancora non ha una sua grammatica e quindi non può avere una completa ufficializzazione a livello nazionale.
Chi sono queste Tre Corone che abbiamo già annunciato precedentemente senza, però, entrare in dettaglio? Si sta parlando di Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. Tre letterati e uomini di lettere dalla fama straordinaria ma tra di essi Pietro Bembo ha, come abbiamo accennato, una sua preferenza: pur riconoscendo a Dante Alighieri il grandissimo merito di aver creato la Divina Commedia, un’opera geniale dal punto di vista contenutistico, allegorico ed enciclopedico (tante le citazioni e le fonti accennate presenti in essa!), non gli riesce a perdonare l’utilizzo di parole troppo popolari o, addirittura, volgari.
Bembo e il rapporto con Dante Alighieri
Se pensiamo alla descrizione che Dante fa nell’Inferno di Mastro Adamo (siamo nel Canto XXX) dove lo descrive così:
“[…] I’vidi un fatto a guisa di leuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca dall’altro che l’uom ha forcuto.”
Ma, allo stesso modo (siamo nel XXVIII Capitolo) Dante Alighieri descrive l’incontro con Maometto che il Sommo Poeta condanna perché, a suo avviso e da uomo medievale, ha prodotto uno scisma nella cristianità. Il profeta è squarciato ed è così descritto:
“[…] Tra le gambe pendevar le minugia;
la curata pareva e l’tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.”
Non consideriamo ciò che venne scritto, perché servirebbe ben più di un trattato – non per giustificare ma semplicemente spiegare la visione dantesca – ma piuttosto come venne scritto. Se oggi Dante è considerato, a diritto, come il padre della lingua italiana proprio per la potenza della sua lingua che non è monocromatica e multi sfaccettata e plurilinguistica, per Pietro Bembo l’uso di termini come questi (in realtà l’Inferno dantesco è pieno di espressioni basse perché altrettanto bassi erano ai suoi occhi i dannati e le loro azioni). Dante, però, è lo stesso che userà termini più ricercati nel Purgatorio per poi elevarsi al massimo nel Paradiso perché la lingua cambia in base al luogo che il viaggiatore Dante fa attraversando le tre cantiche.
Pietro Bembo e la sua visione di lingua volgare ideale
Per Bembo, quindi, vede innanzitutto una netta distinzione tra lingua usata nella poesia e lingua usata nella prosa e, in conseguenza di ciò, sceglie due modelli a cui riferirsi: Petrarca con il suo Canzoniere, per la poesia, e Boccaccio con il suo Decameron, per la prosa. Mentre per quanto riguarda la lingua usata da Petrarca non ha davvero nulla da contestare perché ricercata, adatta ad un pubblico colto, non è la stessa cosa per il Decameron di Boccaccio che viene “sezionato” perché per il veneziano Boccaccio compone in una lingua altrettanto raffinata quando scrive la cornice dell’opera ma “cade nel volgare meno nobile “quando si lascia andare ai discorsi diretti e, perciò, non può essere considerata completamente un modello.
Gli va comunque riconosciuto il grandissimo merito di aver accolto quel sentimento di ricerca e perfezionamento del volgare illustre, quello potenzialmente da ergere a status di lingua standard pur rivisto (ma dobbiamo saltellare a qualche secolo dopo, con Alessandro Manzoni).
In conseguenza di questa grande passione per le lettere e le lingue, Pietro Bembo entra a far parte – di diritto – tra i più importanti personaggi e punti di riferimento della nostra cultura linguistica e letteraria.
Ludovica Cassano