La forma dell’acqua: la semplicità raccontata da Del Toro

Una favola dell’evo moderno

Sbarca su Disney+ uno dei film fantastici più dibattuti degli ultimi dieci anni.

Elementare. Imprevedibile. Storia non storia.

Una fiaba che si sporca le mani ma che trova la propria catarsi proprio nell’elemento principe del genere umano, l’acqua.

Quella stessa acqua che dà la vita, quel liquido così prezioso da non avere forma, odore, sapore, colore, ma che è fonte inesauribile d’eternità.

L’incipit narrativo prende le mosse dalla semplice vita di un’inserviente di Baltimora, siamo nel 1962.

Elisa conduce una vita semplice, abitudinaria, ordinata. Per scelta forse, sicuramente per necessità. Questo non le impedisce di avere un’esistenza dignitosa, onesta, senza particolari aspirazioni, ma con la passione per le piccole cose, quelle vere, quelle che rendono felici a prescindere. La grandezza dentro le piccole cose come le emozioni elementari, l’amore per il ballo e la capacità di sorridere per un incontro arricchiscono la vita di Elisa, rendendola completa.

Poco importa il suo mutismo. Anzi, questo diventa elemento fondante nel simbolismo di Del Toro, un fattore distintivo che individua il carattere tutt’altro che silente di Elisa, aperta al mondo e contenta di scoprire l’universo.

La rottura dello schema abitudinario della protagonista avviene proprio nell’incontro con il cosiddetto mostro, contingenza speciale e inaspettata che si insinua nella mente e nel cuore di Elisa, trasmettendole quasi conforto, oltre che sano interesse. Sano perché puro, generato da emozioni sincere che la rincuorano. Lei che si è sempre sentita diversa a causa della visibile recisione delle sue corde vocali, trova sollievo in una creatura parimenti differente, atipica. Un’esplosione di emozioni contrastanti guida il rapporto tra i due. Si succedono stupore, paura, tenerezza, empatia, affetto, amore.

Del Toro è magistrale nel nascondere il vero filone sinottico.

In un’opera di raro disimpegno narrativo induce a interrogarsi su quale sia la corrente principale da seguire, alimentando la vicenda con eventi differenti, ulteriori, evidenziando solo in seguito il profondo rapporto tra i due silenziosi protagonisti.

Il tempo del racconto è spesso maggiore di quello della storia, fornendo un arco narrativo che sebbene si estenda oltre le due ore, risulta alquanto breve in termini di confronto analitico. Questo dona alla narrazione una dimensione di profondità espositiva, permettendo al regista di indugiare più sul quid che sul quantum. È maniacale questa attenzione verso le pulsioni elementari, standard umani d’eccellenza.

Il focus di Del Toro sull’elementarità pulsionale, sui contenuti e sull’epicentro descrittivo è ben avviato proprio all’inizio, in cui il narratore delinea un incoerente quadro introduttivo, interrogandosi su cosa sia meglio presentare: “Se vi parlassi di questo, se lo facessi, che cosa vi direi, chissà? Vi direi quando è accaduto? È successo tanto tempo fa, pare. Alla fine del regno di un principe giusto. O vi parlerei del luogo, una cittadina vicina alla costa, ma lontana da tutto il resto. O, non lo so, vi parlerei di lei, la principessa senza voce, o vi metterei solo in guardia sulla verità dei fatti, di una storia di amore e perdita. E sul mostro, che voleva distruggere ogni cosa”.

Questo incipit è già di per sé una manifestazione d’intenti, un’anticipazione di quello che sarà o potrà essere, secondo la disponibilità dello spettatore a focalizzarsi su un aspetto o sull’altro.

È ben chiaro il proposito di Del Toro di affrancarsi dalla tipica narrazione informativa delle 5w, ponendo l’accento sui contenuti puri e semplici, di rilevanza maggiore rispetto a una caratterizzazione spazio-temporale precisa, che comunque non manca.

Il focus narrativo è tutto nelle acquatiche parole del narratore, fornendo al pubblico già una prima traccia di quello che sarà.

Il disimpegno verso l’informazione narrativa tradizionale è propria del cinema creativo di Del Toro, la cui potenza immaginifica trascende l’esigenza di ragionevolezza, in cui la vera spettacolarizzazione non sono le immagini surreali, le creature fantastiche, ma il loro autodeterminarsi all’interno della trama.

Mostri ed esseri a tratti abominevoli veicolano sentimenti al miele, azioni dall’esito inaspettato.

Il tratto comportamentale è il vero protagonista di una storia dal tempo effettivo breve, ma la cui grandezza è stata ampiamente riconosciuta, guadagnando un Oscar proprio alla sceneggiatura, sinonimo di attenzione ai dettagli e alla coerenza della trattazione.

Ma non solo.

Questo turbinio di emozioni non è passato inosservato alla critica, che lo ha premiato riconoscendo alla pellicola anche l’Oscar alla miglior colonna sonora.

Infatti, quale migliore strumento di una delle 4 discipline del quadrivium poteva impreziosire un’opera tanto delicata quanto brutale?

Il racconto è modulato dalla musica, la trama è figlia e genitore di una melodia avvolgente, in un continuum narrativo e musicale che perdura fino alla conclusione del film, cullando lo spettatore con dolcezza o conducendolo verso il climax emotivo con asprezza.

Non sorprendono i premi come miglior film e miglior regista, forse gli Oscar più meritati da Del Toro, anche perché strettamente legati.

Il gotico messicano univerba tranquillamente comicità elementare con brutalità quasi fine a se stessa, in un circolo vizioso che si autoalimenta fino a spezzarsi nel finale, quando la scelta epilogale definisce la tipologia di pellicola.

Che sia un thriller, una commedia o un film drammatico, avete solo un modo per scoprirlo.

Lorenzo Cuzzani

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