Grand Budapest Hotel

Grand Budapest Hotel: Resta ancora qualche tenue barlume di civiltà in questo barbaromattatoio un tempo noto come umanità

Dopo 10 anni il capolavoro di Wes Anderson è finalmente disponibile in piattaforma.
Disney+ offre il titolo in catalogo, mentre tutte le altre con un prezzo aggiuntivo all’abbonamento.
Non resta che godersi un pellicola eclettica e bizzarra che già fa scuola.
Irriverente.
Satirico.
Coinvolgente.
Grand Budapest Hotel è tutto questo, ma molto, molto di più.
Una commedia, una commedia nera, una storia dentro la storia, un turbinio di emozioni, illazioni,
giochi di potere asserviti alla comicità più spicciola, ma non per questo meno conturbante.
L’Ungheria del secondo dopoguerra ospita un decadente albergo, teatro di una fantastica epopea
decenni prima, depositario di una storia perduta, a tratti grottesca, ai limiti dell’inverosimile, che
solo il caso ha voluto fosse raccontata, scoperta, come fosse un prezioso tesoro, nascosto in un
forziere la cui chiave è gelosamente custodita e protetta dall’unico superstite a tale fortuna.
Per certi versi, sfortuna.
Brillante il leit motif di tutto lo sceneggiato, alla cui tragicità narrativa è accostato un umorismo da
antologia.
Lo spettatore è pervaso tutto il tempo da un’emozione contrastante, a metà tra lo sconforto e la risata
incontrollabile, tributo alla profondità dei personaggi, ma anche allo spessore del cast.
Rigorosamente scelto tra stelle della nuova e vecchia Hollywood.
La dimensione surreale della trama è valorizzata dal flashback da cui prende le mosse l’intera storia.
L’eccentrico M. Gustav, concierge del lussuosissimo Grand Budapest, si destreggia per l’intera
struttura distribuendo i suoi favori alle sempre verdi nobildonne avanti con l’età: “sembrava una parte essenziale dei suoi doveri”.
È una questione di stile. Mentre elargisce insegnamenti un po’ qui un po’ lì all’intero staff,
catechizzando chiunque meriti i suoi rimproveri, qualcosa cambia. L’atmosfera intrisa di galateo,
buone maniere, riverenza e charme, si oscura. Dal rosso, dal giallo, colori caldi, rassicuranti e
benauguranti dell’accogliente Grand Budapest, si passa al cupo della notte, delle tenebre,
dell’ingiustizia.
Lo spettatore non fa in tempo ad abituarsi a un mondo ovattato che la sua attenzione è catapultata
verso l’efferatezza, l’intrigo, il carcere.
Così, da una diatriba su un’eredità, nasce un qualcosa di inedito, sconvolgente, inaspettato.
Tra fraintendimenti, debiti d’amicizia riscattati in crediti, fughe rocambolesche attraverso paesaggi
resi magistralmente da un’ottima fotografia, si è cullati da una colonna sonora soave, mai banale,
verso la comprensione di un’epoca che non c’è più, o forse non c’è mai stata, dove la morale
discutibile di un uomo si scontra con la sua inclinazione verso il bene, verso il compiere la scelta
giusta dettata dal cuore. Quello stesso rimasto nel petto di tutte le sue “mature” amanti e nell’animo
gentile e fedele del suo più caro servitore, Zero.
La dialettica formale e l’impostazione rigida dei 2 protagonisti rimangono tali per tutto il tempo.
Caratterizzano l’opera e sono arricchite dal divertente e continuo battibecco tra i 2, che si enfatizza
sempre più al crescere del valore di Zero.
Il fedele pupillo acquista consapevolezza e fiducia nei propri mezzi e si pone alla pari con il suo
padrone, riconoscendone sempre la superiorità, ma non confondendo più la riverenza con il timore.
È lui il vero erede di un savoir-faire d’altri tempi, lui il vero destinatario di tutte le conoscenze di
Gustav, il cui lascito non potrebbe essere più grande, più rilevante, più amorevole, per il quale
bastano poche parole: “lui era un essere umano, che altro resta da dire”.

Lorenzo Cuzzani

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