Benicio del Toro da Oscar, Villeneuve realizza un capolavoro

Sicario: il bene e il male sono solo concetti relativi

La lotta al narcotraffico trascende l’ortodossia e ospita la vendetta

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La parola Sicario nacque per definire gli zeloti di Gerusalemme, assassini che davano la caccia ai Romani, invasori della loro terra”.

La pellicola si apre con questo incipit, fornendo subito un’impostazione formale, desiderosa di delineare un continuum con il passato, quasi giustificando l’origine e la figura stessa del Sicario, persona costretta da necessità superiori a scegliere un certo tipo di vita, il cui modus operandi sia figlio di esigenze elementari come sopravvivenza e protezione, ma anche complesse in fatto di realizzazione, il cui prezzo comporti la vita altrui.

Questo il focus del film, celato attraverso una storia nella storia, in cui il mantenimento dell’ordine trovi due opposte modalità di realizzazione: da una parte una grande convinzione nel rispetto delle regole, dall’altra cinismo e disillusione un tanto al kg.

La brillante e diligente agente dell’FBI, Kate Macer, capitano della squadra sequestri, accetta di mettere la sua professionalità al servizio di una task force che smantelli l’organizzazione responsabile di sequestri e omicidi.

È inconsapevole della linea grigia tra bene e male, scoprendo una dimensione relativa che oltrepassi l’assoluto.

Tra riunioni tecniche e missioni aumenta il vortice delle domande, specie nel confronto con due personalità tanto incomprensibili quanto oscure, come il consulente capo della task force Matt Graver e l’ex procuratore Alejandro.

La loro condotta drammaticamente cruda e spietatamente orientata alla finalizzazione dell’incarico costituisce un contraltare notevole alla natura idealistica e ingenua della Macer, mai abituata a ragionare in termini machiavellici, lontana da un’ottica di fine che giustifichi i mezzi, specialmente misconoscendo i mezzi e ignorando il fine, per il quale comincia a nutrire più di un dubbio.

Il capovolgimento narrativo nasce proprio da questi dubbi, volano di eventi che trascendano il concetto di giustizia, ponendo più di qualche interrogativo etico cullato da una colonna sonora impressionante. Un climax musicale che accompagni un’intensa azione in cui non ci sia mai convinzione, in cui piano piano si palesi l’ambivalenza vittima-carnefice, dove la prima diventi la seconda e viceversa in un circuito che si autoalimenti spezzandosi soltanto al prevalere di una delle due, rompendo il circolo vizioso e ristabilendo i ruoli e un ordine, nuovo, fino alla prossima volta.

Così, il simbolo di giustizia sveste i panni della stessa, indossando quelli di male necessario, affinché questa sia garantita, diventando male relativo che debelli l’assoluto. L’interrogativo che la pellicola si propone di suggerire, rimane: qual è il male peggiore? E mentre cresce la tensione, giungendo al climax in un epilogo inesorabile, si è portati a pensare che dietro tanta retorica si celi solamente la legge del più forte, quasi rispettando quel principio di natura nobile, che qui degeneri: ubi maior minor cessat.

La disillusione è la vera protagonista dello sceneggiato: fluttuante tra stacchi musicali sempre azzeccati e un montaggio davvero supremo, questa accompagna l’intera pellicola pervadendo il pubblico di una simulazione continua di azioni ed eventi in funzione di una dissimulazione altrettanto continua di obiettivi e risultati, che trovino la loro realizzazione nell’uomo nero Alejandro, la cui introspezione è tanto profonda, quanto vuota, perché oltre una certa soglia, il dolore trascende la disperazione e si trasforma in indifferenza.

Lorenzo Cuzzani

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