Da quasi premio Oscar a re dei moderni b-movie
Absolution è solo l’ultimo dei film che intrappolano un grande attore nella morsa della mediocrità
Absolution è solo l’ultimo tassello di un puzzle in deterioramento.
L’ultima interpretazione di un attore di talento, capace di adattarsi a più ruoli, elemento di raccordo tra vecchie e nuove generazioni.
Qualcosa non torna.
Il tenebroso Liam di ruoli ne ha interpretati, ma negli ultimi 15 anni sembra non aver mai dismesso i panni del caratterista.
Più o meno perdente.
Tormentato? Si.
Alcolista? Si.
Peccatore? Si.
In cerca di redenzione? Sempre.
Redento? Quasi.
O quasi sempre, secondo i gusti.
Sembra tornato alla fine degli anni 80, quando sfoggiava un sorriso più o meno beffardo mentre seduceva Gina Calabrese (Saundra Santiago) in Miami Vice.
Iniziava lì la sua ascesa maledetta, un trampolino di lancio verso un antipersonaggio cui non prendere spunto, l’esempio di una virtù fallace. Sean Carroon sembra un idealista, ma dietro quel fascino glaciale a tinte irlandesi, il fantasma di se stesso viene fuori.
Nonostante Star Wars: Episodio I – La minaccia fantasma, Gangs of New York e Le Crociate, pellicole in cui un attore già affermato si presti a sviluppare una certa poliedria attoriale, Liam cade sempre in produzioni dove sia permeato di disgusto per se stesso e non manchi di autocommiserarsi. Fluttua attraverso intrecci dove il tempo del racconto sia troppo superiore a quello della storia, rendendo impossibile, per lo spettatore, calarsi nel torbido passato del film di turno.
Il tanto agognato contesto molto di moda oggi.
Appena recepito qualcosa, si è già in procinto di vederlo sulla via della redenzione, della vendetta, del pareggiamento dei conti.
Almeno 15 anni di peripezie già viste, figlie di una narrativa logora e abusata tutta permeata di quel falso noir tendente all’azione, spesso scadente, dove la sua unica consegna artistica sia il mantenimento di quella sola posa.
Il fu Oskar Schindler, il compianto Michael Collins, il controverso Alfred Kinsey, ridotto a una mono-espressione, quando potrebbe offrirne 100.
Veramente un peccato per chi ha comunque partecipato anche a pellicole come Excalibur, Krull, The Bounty, Mission, Nell, Love Actually, Batman Begins e molti altri filmoni, più o meno impegnati.
Il Liam alcolizzato, padre degenere, violento e in rotta con famiglia e mondo in generale delinea uno stucchevole fil rouge di un inconcepibile sfruttamento di un attore di gran livello, la cui professionalità sia messa tutta al servizio di interi filoni di avanspettacolo.
Usando un lessico più cinematografico, sembra essere stato indirizzato verso tutto quel novero di b-movie che arricchiscono nicchie di appassionati.
Quel fandom molto richiesto al giorno d’oggi, che trasformi pochi fan in molteplici fruitori, purché paghino un abbonamento mensile sulle varie piattaforme e, per pigrizia, siano intrattenuti dalle ultime uscite del momento, ben sparate come prime opzioni e con il fascino di una scelta induttiva e non elettiva.
Non che film come la trilogia di Io vi troverò (Taken), The next three days, Unknown, The Grey, Third Person, Run All Night, The Commuter, Un uomo tranquillo e Retribution siano completamente asettici, senza dimenticarne molti altri, ma compongono una categoria di produzioni dalle grandi premesse e dalla risibile resa.
Anche il suo ultimo film, Absolution, si inserisce in quella narrativa un po’ Bukowski un po’ Kerouac, con rimandi ai polizieschi anni 70 stelle e strisce, come The French Connection, o ai poliziotteschi italiani dello stesso periodo, tipo Milano Calibro 9.
Scomodare Bullitt, sembrerebbe azzardato.
Absolution non disdegna una certa dimensione onirica di daliniana e magrittiana memoria.
Il risultato, comunque, è scadente.
Sinossi confusa, intrecci banali, narrativa ridondante.
Anche qui, l’espressività volutamente bloccata, i pochi strumenti conoscitivi offerti al pubblico e quel surrealismo forzato mal si complementano tra loro.
Hans Petter Moland non è di certo né William Friedkin né Luis Buñuel, così come Tony Grayson non sarà mai Fernando di Leo.
Per uno che ha lavorato, tra gli altri, con John Boorman, Roland Joffé, Roger Donaldson, Sam Raimi, Neil Jordan, Michael Caton-Jones e, soprattutto, Steven Spielberg e George Lucas, appare inspiegabile un simile caratterismo fine a se stesso.
Ci piace ricordarlo come un quasi premio Oscar, se un immenso Tom Hanks non avesse trionfato con Philadelphia lo stesso anno.
Ad Maiora, Liam!
Lorenzo Cuzzani