Suonala Sam, suonala per sempre
80 anni dopo.
Ancora in Marocco.
Ancora a Casablanca.
Ancora buone maniere, classe, pianoforte, voci suadenti.
Sguardi.
Potenti.
Angosciati.
Reali.
Casablanca è tutto questo e anche molto, molto, molto di più.
Omaggio a una pietra miliare del cinema, è estasiante potersi calare nella magia di una settima arte che trascenda il tempo.
Un piacere poter assistere dentro una sala a 102 minuti di minuziosa semplicità, conturbante intrigo, universale spontaneità.
Universali sono i sentimenti, universale è il male, universale è ogni afflato di umanità ognuno di noi voglia ricercare e trovare nel film.
Quasi da chiedersi quale sia lo scopo di Michael Curtiz, se usare la Seconda Guerra Mondiale come teatro di una grande storia d’amore, non abdicando al proprio impegno sociale in onore delle proprie origini, oppure il contrario. Chissà se Miska abbia voluto inquadrare l’orrore della guerra attraverso l’ingiustizia del potere, usando proprio la ragione del cuore come palcoscenico.
Qualunque sia la risposta, la pellicola non tralascia certo una contestualizzazione fulcro per la storia.
Un tempo del racconto maggiore di quello della storia (eccezion fatta per il flashback) enfatizza un manierismo filmico maniacale. Ogni scelta stilistica è curata ossessivamente e delinea un quadro melodico dipinto abilmente da Sam.
Una storia nella storia, perché Dooley Wilson era un batterista e mai è stato in grado di suonare il piano.
Non l’unica, ovviamente.
A elevare il novero di paradossi e metacinema è proprio lui, Rick.
Humphrey Bogart spacca lo schermo.
Non solo è il protagonista della pellicola, ma conduce la sua vita nella finzione.
Newyorchese, giocatore di scacchi, duro e senza fronzoli nella vita fuori dal set, coerente caratterizzazione di un Rick che tutti cercano, vogliono, vorrebbero essere.
Un bel continuum con il suo precedente ruolo ne Il mistero del falco (1941). Espressione severa ed eleganza d’ordinanza, il noir hardboiled di Dashiell Hammett è come un lavoro preparatorio per il faccendiere Rick Blaine.
Lo sviluppo e la caratterizzazione di Bogart si pongono come fortuna e sfortuna di un personaggio spesso alla resa dei conti con epoche diverse.
La modernità con cui Casablanca sferza le sale cinematografiche durante la guerra è annichilente.
Il pubblico è abituato al potere di uno sguardo che traduca l’io in super-io, ma forse non così tanto da apprezzare qualcosa che ponga ogni Paese davanti alle proprie responsabilità. Il disimpegno politico in piena guerra non è qualcosa di semplice, né ci si può aspettare che il pubblico comprenda un valzer di ironia e genialità che coniughi un lieto fine a tinte relativiste.
Lo stesso relativismo che, a più riprese, dopo decenni, si è erto a paladino di una certa morale revisionista, palesando uno sciovinismo proporzionale, imponendo arrogantemente modelli di costume giusti e sbagliati.
Così, capita di leggere da più parti, critiche a una figura coerente di anti-eroe, etichettato come canto del cigno di una cultura machista e ingiusta, secondo un imperativo categorico di caccia alle streghe del tempo che non trovi alcuna giustificazione.
La guerra è ingiusta e spietata. L’amore non segue le leggi della morale un tanto al kilo veicolata da social e media senza argomenti.
Humphrey Bogart incarna un eroe differente, inaspettato, ineludibile, fiero di se stesso e sicuro delle proprie azioni.
Un concetto, il credere in se stessi e personificare un uomo forte, tormentato e cinico, pesantemente osteggiato da movimenti di dubbio gusto, sempre alla ricerca dello scandalo.
Rick è un’icona per il cinema, un sogno per la bellissima e dolce Ilsa, a suo agio nei panni della donna spezzata ma non a terra, simbolo di coraggio e potenza emotiva reale, veicolo di sensazioni elementari e appassionate. Ingrid Bergman non dismette mai l’abito del proprio ideale. La sua fragilità è quella di una donna d’altri tempi, un’essenza femminile che conosca il valore del sacrificio e lo abbracci con temerarietà.
Casablanca è la sintesi memorabile di un immenso lavoro conflittuale tra innumerevoli sceneggiatori e, sebbene sconti esigenze di trama del tempo, appaga appieno quel bisogno di cinema d’autore che esplode in ogni scena.
Una volta la massima aspirazione era volare verso l’America, sogno proibito specie per chi non avesse nulla.
Avremmo tutti bisogno, oggi, di quelle lettere di transito, per volare verso una felicità reale. Consapevoli che la vita vada vissuta fino in fondo, con l’audacia di portare avanti le proprie scelte e la forza di accettarle.
E accettarsi.
Perché niente è peggio del rimorso, che può arrivare in ogni momento.
Non oggi, forse nemmeno domani, ma presto o tardi e per tutta la vita.
Lorenzo Cuzzani