Vecchie glorie e vecchie storie sbarcano nell’evo tecnologico
Ryo Saeba è tornato.
Anche stavolta con un film evento proiettato per tre giorni.
Angel Dust, titolo accattivante.
Specie per chi conosca la storia, l’origine, le origini e l’epopea dello sweeper più famoso al mondo.
È subito Ai yo kienaide (“Amore non sparire più”) e si parte per una nuova avventura, dove Ryo non solo non sparirà, ma farà molto di più.
L’immancabile binomio mokkori-Kaori occupa buona parte della pellicola. Anche troppo, questa volta. Ryo non smetterà di elargire amore al genere femminile, Kaori non rinuncerà mai a punirlo.
Esilarante nel manga, divertente nell’anime e in altri film (specie in Arrestate “Ryo Saeba!), in Angel Dust si è come provato a dare contesto a 360° alla storia, coadiuvando la comprensione del nuovo pubblico.
Si avverte una curiosa dicotomia tra il fu City Hunter anni 80 e 90 con una narrazione che provi a ogni costo a inserirlo nel 2024, con risultati altalenanti.
Pregevole l’implicita critica al mondo social, da cui sono avulsi i due protagonisti, che mantengono un contegno tradizionale, elementare, quasi beatamente terra terra.
L’operazione connubio vecchio/nuovo avviene sotto diversi aspetti e non è detto sia un male, potendo lo spettatore scegliere la propria modalità elettiva secondo sensibilità e gusti.
Diversamente da quanto letto da altre parti, non può piacere ai nostalgici.
O, certamente, non è un prodotto adito al richiamo degli affezionati.
Se qualche redattore ha pensato di impreziosire la propria recensione annacquandola con critiche di operazione commerciale per vecchi fan, il fruitore della stessa sarà messo fuori strada.
Il motivo è presto detto.
Si tratta di un’opera con il chiaro intento di lanciare un franchise, quasi ridisegnando un universo parallelo o pseudo-parallelo alla storia principale.
Era lecito aspettarsi qualcosa in più di un lavoro preparatorio dai contorni facilmente intuibili dai fan (e non solo) e con qualche avvicendamento in più di Umibozu, Saeko e magari Reika. Anche se, c’è da dire, Angie è ben caratterizzata come bambola soldato di turno.
Alcuni temi sono ripresi in maniera ridondante.
L’auspicio è quello di non seguire l’esempio di tanti popolari anime trasposti sul grande schermo, come Ken il guerriero, ove la necessità di settima arte ha spesso trasceso l’originalità delle storie e degli archi narrativi, creando confusione sul continuum.
Per fortuna la colonna sonora è quella originale, senza cover. In questo la tradizione vince e convince.
Anche se farà storcere il naso a una parte di pubblico occasionale i cui desiderata propendevano per novità musicali.
Peggio per loro.
Never beat the classic.
È chiaro che i fan possano trovare rimandi alla storia, ma alcune forzature e buchi di trama mal si confanno a un manga/anime che abbia sempre avuto una propria coerenza, seppur nella sua alleniana tendenza di non prendere posizione.
Comprensibile, ma non pienamente accettabile, l’idea di tirar fuori in quel modo un personaggio tragicamente affascinante come Makimura: i neofiti non capiranno comunque il suo ruolo nella storia, i fan lo ricorderanno meno filosofo, seppur serio e profondo.
Cameo importanti sembrano sbrigarsi per non tardare al prossimo crossover.
La duplice speranza è che non siano solo comparse ma neanche confondano troppo la sinossi successiva.
Manca veridicità in alcune scelte di combattimento. Non tanto per la dimensione realistica. Sono quasi 40 anni che Ryo prende martellate gigantesche e rimane illeso. Piuttosto per il contributo di alcuni personaggi che, vicino al nullo, sembra assecondare la necessità di avere vuoti narrativi.
E viceversa.
Non sorprende il relativismo di alcune scene. Tsukasa Hojo non ha mai negato di preferirlo al bene/male in rapporto dicotomico, in piena tradizione orientale.
Kaori sarà sempre Kaori, difficile commentare la caratterizzazione di un personaggio cui Hojo non rinunci neanche in Angel Heart (il manga dopo City Hunter).
Forse manca un po’ di comicità elementare, troppo assorbita dal mokkori che qui sembra poco pungente e più allunga brodo, sottraendo tempi comici che sarebbero serviti a ospitare anche battute pungenti, in pieno stile City Hunter.
Il resto è un insieme di disegni ben fatti, come da tradizione, pregni di colore dalla potenza tecnologica che sovrasti il tratto degli anni 80, ma non fastidioso per gli occhi.
Peccato aver dato più enfasi all’aspetto scenografico di cui sopra, sacrificando il tempo della storia a quello del racconto e scontando la mancanza di azione che in un film del genere si erge a paradosso contemporaneo.
Il sali-scendi emotivo, come in Private Eyes, si ha sempre con la colonna sonora tradizionale.
Se in Private Eyes era Footsteps a scandire l’azione, qui ci pensa Running to the Horizon, modulare e toccante quando serve.
Infinita, come sempre, Get Wild.
Capace di riaccendere sentimenti e pulsioni di un pubblico troppo abituato a storie moderne e molto simili tra loro.
Mentre i TM Network ci cullano attraverso note a metà tra la nostalgia e il fomento, riscopriamo banalmente come Ryo mantenga sempre la propria parola, in ogni situazione.
Ryo non morirà.
Lorenzo Cuzzani