Giurato numero 2: all’improvviso succedono cose

Giurato numero 2: all’improvviso succedono cose

Crudo realismo e mancata spettacolarizzazione polarizzano la scena

Out of the blue

Qual è la differenza tra bene e male?
Il relativismo può davvero giustificare delle scelte egoiste dall’univocità nuda e cruda?
Clint Eastwood ha sempre abituato a posizioni forti, se non a tematiche vigorose, qualcosa che arrivasse con la stessa forza delle pallottole sparate dalla magnum di
Dirty Harry.
Scorpio o no, anche stavolta qualcuno paga per le scelte di altri.
Impronosticabili.
Improbabili.
Insospettabili.
Più che la trama, chiara fin dall’inizio, il buon Clint si focalizza sull’evoluzione di una possibile trama, qualcosa di potenziale.

Una possibilità dilatata dall’inizio alla fine.

Colpi di scena, ribaltamenti, sotterfugi.
Il vero protagonista della pellicola è il crudo realismo.
Ricalcando una tradizione di film di giurati come
La parola ai giurati (1957 e 1997) e La giuria (2003), Giurato numero 2 punta il dito sulla criticità del sistema americano. Un sistema in cui i giurati siano come coscritti, fluttuando in un processo che a volte li renda completamente insensibili o disinteressati, altre li coinvolga troppo, altre ancora li immedesimi in qualcosa che non gli appartenga.
Il deficit di obiettività è palese in un ordinamento dove a rilevare non sia un dibattimento tra figure di riferimento, ma idee di soggetti che, spesso, utilizzino la loro funzione come disimpegno, quando non sfruttino la corte come rivincita personale.
In mezzo a questa riflessione (dal sapore di critica neanche troppo velata) a tinte agrodolci troviamo il classico dilemma della giustizia, intesa come fonte del diritto, non giustizia (sic!) come sinonimo di equità.
La classicità del meccanismo premiale per cui dalla vittoria di una o più cause dipenda la carriera legale e politica dell’organo requirente è storia nota.
Antica.
Stucchevole, anche.
Tanto negli Stati Uniti, quanto in Italia (e non solo) funziona così.
Difficile non scorgere questa riflessione come primigenia per Clint Eastwood, impegnato a disegnare un quadro di alleggerimento valoriale, nel segno del sempre più scontato “purché qualcuno paghi, purché ci sia un colpevole”.
Come spesso accade, è più facile accettare l’abbattimento di una strega, che la fuga di una maga.
Quando i ruoli si invertono e i pregiudizi cedono il passo alla verità, diventa davvero difficile discernere il bene dal male.
Punire qualcosa perché eticamente votato al male o concedergli quel beneficio del dubbio?
Se si, in virtù di che cosa?
Riconoscere l’innocenza della strega
brutta e cattiva e travolgere la maga buona e giusta che questa volta merita la punizione più severa?
Tanti interrogativi cui neanche il regista sembra voler dare risposta, preparando per due ore lo spettatore a una soluzione chiara ed esaustiva.
Le risposte, quelle vere, sono sospese tra gli empirei occhi di Justin e il mare in tempesta di Faith.
Out of the Blue.
Perché all’improvviso può succedere di tutto. 

Lorenzo Cuzzani

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