Fast X – La famiglia al centro di tutto

Un cast stellare per una pellicola che non tradisce le attese

 

La famiglia non manca mai.

Nell’universo più veloce e furioso che ci sia, questo legame unisce tutti i capitoli della saga.

L’incipit è proprio in tal senso, anticipando qualcosa che solitamente sia riservato alla fine.

Socialità e moralità intorno a un tavolo, barbecue e pourparler focalizzano il filo conduttore del kolossal.

Revival e amarcord, Fast X ha un passato, un presente e un futuro. Nulla è un inedito in Fast and Furious, il carattere evocativo e causale caratterizza anche questa pellicola.

Piacevole rivedere qualcuno che abbiamo tanto amato, vivrà sempre sulle note di See You Again.

Lo rivedremo.

Ancora.

Chi invece vediamo bene è proprio Mia, incantevole sognatrice, inguaribile romantica, discutibile artista marziale. Un po’ singolare lo charme di forza e impeto attribuitale, tra un destreggiarsi sinuoso e un susseguirsi di letali maniere.

Quasi a voler rubare la scena a due picchiatrici seriali come Letty (strano!) e Cipher (era ora!), che non mancano di ricordare il proprio caratterismo carrieristico la prima, quello tardivo la seconda.

Uno scontro esilarante per la corona di dure. Gli amanti dei combattimenti MMA dentro le gabbie ringrazieranno.

Interessante la scelta del cattivo di turno. Stiloso, ai limiti del ridicolo, a inizio pellicola, un concentrato di ingenuità e rabbia fine a se stessa prima facie, per passare  a uno psicopatico (qualcuno direbbe narcisista, ma forse è il caso di ridimensionare un termine abusato) che ha trasceso dolore e frustrazione in lucida follia. E idiozia.

Jason Momoa appare meno cattivo del solito, almeno guardando ad alcuni grandi successi come Khal Drogo ne Il trono di Spade o Keegan in Bullet to the Head. Verosimilmente più buffo, con occhi meno truccati che depotenzino quella solita furia omicida, ma con quella classe criminale fedele alla legge del taglione.

Bizzarro e quasi poco serio, sulla falsariga di villain eccentrici come il Joker di Jack Nicholson nel 1989, quando Tim Burton tingeva di tinte fosche Gotham City ma con quell’ironia e quell’amore per l’arte che solo il buon Jack poteva tradurre in ghigni agrodolci.

Senza scomodare mostri sacri inavvicinabili, questa scelta appare sensata. Alla vena artistica e al dialogo creativo si sostituisce qui un’accozzaglia di luoghi comuni e sogni infranti. Il tutto fa rima con un espediente narrativo non nuovo, ma comunque efficace.

Pervicace, se volete.

L’ostinazione di Dante è tutta un profluvio di esplosioni e inseguimenti ben caratterizzati nella città eterna.

Roma è un teatro meraviglioso di royal rumble automobilistica. È stimolante ricercare viette e meandri di storia millenaria dove sfreccino mezzi di ogni tipo. Pazienza se spesso ci si trova spaesati da riferimenti spaziali non propriamente romani: è pur sempre un film e Louis Leterrier avrà pensato bene di arricchire la Capitale con portici torinesi o discese di Genzano di Roma.

Tutto fa brodo.

Rimanendo in tema WWE, come non apprezzare il cambio di paradigma di Jakob. John Cena riempie molto più lo schermo con quel faccione da bonaccione. Un’intera carriera da babyface non può che trovare terreno fertile in un personaggio redento, dallo spirito redivivo e dall’aspirazione di giullare alla corte del nipote, il piccolo Brian.

Da un clown all’altro, Roman non tradisce le attese.

Soprattutto perché la sua leadership non poteva far presagire nulla di buono. Vera e propria icona comica della saga, ormai la sua essenza caricaturale è imprescindibile.

E poi lui.

Dom.

Personificazione di tutto quello che questa saga identifichi.

Sguardo profondo, quasi penetrante (gli occhi sono troppo piccoli), Toretto è fedele a se stesso fino in fondo. Non guida, dirige un mezzo a quattro ruote oltrepassando il concetto di locomozione. Ogni mezzo da lui sovrinteso è uno spartito condotto da Mozart, seppur con una musica leggermente meno elegante. Ogni sua battuta sembra partorita dalla nemesi di Oscar Wilde. Ogni suo proponimento è un impegno di alfieriana memoria, dove non ha bisogno di farsi legare, dal momento che ogni cintura di sicurezza lo inchiodi al sedile dell’auto neanche avesse riscritto le leggi di Newton.

È questo però che ci piace del franchise furioso, non prendersi mai veramente troppo sul serio, lasciando spazio all’azione pura e semplice, a colpi di scena, sorprese e pathos (Aristotele rabbrividirebbe).

L’emozione c’è e si sente, perché niente è impossibile se c’è fede.

 

Lorenzo Cuzzani

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