La forma trascende la sostanza
Precarietà e ambiguità centrali nella pellicola
Precarietà.
Il tema principale di questa particolare pellicola di Christopher Nolan.
Diversamente dalla maggior parte delle sue pellicole, eccezion fatta per Dunkirk, Nolan si cimenta in qualcosa dai contenuti realistici. Documentabili. Storici.
Il che non implica manchino colpi di scena, pathos e voli pindarici.
Stavolta, però, il contorno storico è contesto e protagonista.
È una veste a tratti stretta, a tratti larga, che cinga con cinica presa il sinuoso corpo sinottico.
È chiaro fin da subito come Nolan intenda costruire una narrativa del disincanto su vicende passate alla storia.
È rilevante il lascito della storia ai posteri o, almeno, è quanto il regista sembri voler imprimere nella sua settima arte.
Rileva qui un senso di giustizia che trascenda ogni cosa. Con la stessa forza con cui l’ingiustizia dilagante investa il pubblico per tre ore, creando non pochi interrogativi sul senso della pellicola.
Robert Oppenheimer è magistralmente interpretato da Cillian Murphy.
I suoi occhi sono un portale per infiniti mondi da esplorare. Il suo carisma convince anche i più scettici.
Nonostante un cast corale, da Matt Damon a Emily Blunt, da Casey Affleck a Robert Downey Jr. e molti altri, è sempre Cillian Murphy a spaccare lo schermo.
Il suo Oppenheimer fluttua nell’etere di uno spazio tempo di gran fermento. Immedesima il genio, la frustrazione, la passione e la tenacia. Decostruisce l’enfasi politica di un uomo: scienziato prima, politico poi. Dona un’interpretazione mai caricaturale a un personaggio di grande spessore, seppur appesantito da una trama di difficile interpretazione.
Interpretazione, non comprensione.
Appare quanto mai arduo interpretare una trama di cui si comprenda lo svolgimento, ma non la funzione.
Investiti per ore dall’incedere ridondante (quando non ingombrante) di archi et similia, si è portati a mantenere alta la concentrazione. Nolan è un maestro nell’utilizzare un’ottima colonna sonora per suggerire allo spettatore di seguire con attenzione.
Qualcosa sembra non aver funzionato.
I climax musicali non coincidono con una vera e propria esplosione narrativa.
La sensazione è un’attesa perenne verso qualcosa che accadrà.
Aspettative sempre disattese a causa di una trama focalizzata su colpi di scena ampiamente preventivati o preventivabili.
Il pathos di Oppenheimer è tutto nel suo cruccio verso una platea di ingrati e incapaci di capirlo veramente.
Il maccartismo e l’oscurantismo conseguente sono labili tracce di colore in un dipinto volutamente appena abbozzato. Sembra quasi sia chiesto al pubblico di conoscere ampiamente un periodo che, anche in virtù di dispute storiografiche, sia più complicato da inquadrare rispetto a dinamiche buono-cattivo o principale-agente.
Si è orientati a chiedersi se il nulla osta di sicurezza sia il punto di partenza di Nolan o il suo punto di arrivo.
In entrambi i casi, la funzionalità della trama risponde a esigenze di riabilitazione di un nome, quello di Oppenheimer, che se nobilitano gli intenti del regista, fanno scontare al film una certa lentezza priva di mordente.
Lentezza filmica non si traduce per forza in un aspetto negativo.
In questa pellicola, però, il calderone di personaggi, processi, inquadrature allungate e frasi a effetto non riuscite mostra che anche i grandi, a volte, si specchino nella loro arte.
Oppenheimer è, purtroppo, colmo di una pedanteria che lascia completamente spiazzati.
Perdono, Christopher!
Lorenzo Cuzzani