C’è un fine stratega sotto quella montagna di muscoli?
Reacher è sempre Reacher.
Scontroso, taciturno, gigantesco.
Alan Ritchson è decisamente azzeccato nel ruolo del burbero Jack.
Molto più di Tom Cruise, il cui fisico minuto (di statura, non ce ne voglia il buon Tom) ha destato più di qualche perplessità per la caratterizzazione dei precedenti film.
Orde di fan (che mai conoscono il loro posto) a inveire contro tutto e tutti, pur di non avere “l’arrogante imbecille basso” a sporcare un’immagine creata dalla variopinta penna di Lee Child.
Si sa, i social legittimano allo sproloquio non assistito.
Tom non aveva sfigurato nelle precedenti pellicole, ma con Alan ci si avvicina molto di più alla fedeltà narrativa, alla potenza muscolare, alla messa in onda di un Aiace moderno.
La prima stagione di Reacher aveva segnato una svolta di genere.
Un po’ giallo, un po’ poliziesco, quasi a ricalcare il polizziottesco anni ‘70 di italica memoria.
Tagliente, sagace, a volte macchietta.
Altre sogno americano.
Altre ancora down-to-earth, dicono oltreoceano.
Lee Child non ha germogliato un giustiziere duro e puro, sempre sul pezzo e con la battuta pronta.
O forse sì, ma specialmente in questa seconda stagione esploriamo maggiormente l’emotività del gigante buono.
È vero, la famiglia è la famiglia, ma quella che si crea con la volontà del per sempre non può che scalfire i presunti 196 cm di Jack (Alan Ritchson è alto 188, non staremo a formalizzarci).
A tratti ottusamente testardo e incrollabilmente sicuro dei valori della sua nuova famiglia, Reacher non tentenna.
Non vacilla.
Non esita.
Potrebbe apparire un elemento narrativo noioso e banale. La svolta risiede, forse, proprio in questo.
In un modo di relativismo e cambi di casacche, Reacher rimane fedele a sé stesso e al suo credo, inducendo lo spettatore a domandarsi quale sia il confine tra la sua leadership e l’infinità di massa muscolare che lo annunci e preceda in ogni inquadratura.
A metà tra il fine stratega e il moderno nichilista in versione vagabondo, Reacher enuclea una o più storie dove non manca spazio per la sua squadra, conferendo spessore a personaggi in primis sconosciuti e la cui importanza sia disvelata con calma.
Senza fretta.
Tra una rissa e l’altra, passando per sparatorie, bombardamenti e costante pericolo di vita.
E anche altro, ma non gioverebbe raccontare i dettagli.
Prime Video indovina la struttura e l’indirizzo sinottico investendo trasversalmente l’azione senza dimenticare il filone d’indagine, nonostante la singolare scelta di offrire al pubblico una trama derivante da un libro di ben dieci anni successivo a quello d’esordio, da cui prende le mosse la prima stagione.
Tra Zona Pericolosa e Vendetta a Freddo ci sono altrettanti romanzi reacheriani: è chiaro che lo showrunner Christopher McQuarrie abbia optato per una scelta di audience, piuttosto che di coerenza cronologica.
De gustibus non disputandum est.
Però attenzione: “non si scherza mai con gli investigatori speciali!”
Lorenzo Cuzzani