Elwood Dalton è bello.
Di un’umiltà quasi affettata.
All’inizio si percepisce una grande bontà, condita da una voglia di espiazione da sindrome di agnello sacrificale.
Un potere derivante da una brillante forma fisica e da un talento marziale non può prescindere da un controllo e un autocontrollo che ponga il nostro eroe nel lato giusto della storia.
Qualcuno avrebbe parlato di binomio potere-responsabilità.
Old but gold.
Per i primi 40 minuti la pellicola non ha la pretesa di emulare l’originale.
Se non in costruzione e inquadramento della trama.
Un plauso alla colonna sonora che, come nel 1989, scandisce ogni tensione narrativa, accompagnando allegramente una sinossi forse prevedibile ma compatibile con il genere di riferimento.
Elwood parla poco come James, ma è meno serioso.
Più leggero, meno rabbioso.
Riprende altri lavori di Gyllenhaal, dove Jake ben figura in una caratterizzazione ambigua.
Tirato a lucido come in Southpaw, è notevole il lavoro per mantenere e consolidare una fisicità sempre più scolpita.
Bene anche il nostro Stefano Crescentini nel doppiaggio italiano: timbro di voce a metà tra il baritono e il ragazzo mai cresciuto, conferisce un’ottima impronta al moderno Dalton.
Aggiunge quell’ironia adulta che nella versione in lingua originale è fornita più dai dialoghi.
Nota dolente della versione italiana.
Una resa traduttiva che, come spesso capita, penalizza il senso dell’originale.
Non che possa parlarsi di stravolgimento, ma l’adattamento non sempre è coerente.
Un plauso anche per Gabriele Sabatini, il doppiatore di McGregor: replicare il tono dell’irlandese pazzo è impossibile. Renderlo verosimile in italiano è uno sforzo davvero valido.
Billy Magnussen non è molto credibile nel ruolo di antagonista principale. Forse non lo è mai davvero. Prepara il campo per The Notorious.
Buona presenza scenica di Conor McGregor: interpreta semplicemente sé stesso dentro la pellicola. Difficile dimenticarsi quando assaltò il pullman di Khabib Nurmagomedov il 5 aprile 2018 a New York.
Tragicomico al punto giusto, non poteva esserci scelta più azzeccata per una caricatura di sé stesso.
Marshall R. Teague impersonava un Jimmy più cattivo e meno bizzarro, ma si evince in maniera lapalissiana come Knox sia un reale lottatore, non solo un attore prestato alle arti marziali.
Anche Darren Barnet non è credibile nel suo ruolo di sgherro, quando pochi mesi prima al cinema vestiva i panni di una pedina manovrata dai genitori di Bea (Sydney Sweeney), il bravo ex ragazzo in Tutti tranne te.
Alcuni combattimenti appaiono un po’ costruiti o poco avvincenti. È pur vero che Lukas Cage e Dominique Columbus non si avvicinano neanche lontanamente a Sam Elliott.
Nel 1989 c’era più sexploitation, ma senza scomodare Russ Meyer o Joe D’Amato. L’intento era catalizzare l’attenzione dello spettatore. Dimensione che dopo trentacinque anni si è deciso di livellare puntando sul carisma e la dolcezza di Ellie (Daniela Melchior), abbandonando il fascino di una bellissima Kelly Lynch ma soprattutto la sensualità prorompente di Julie Michaels.
Rimandi parziali di trama si hanno proprio nei minimi dettagli, forse più come omaggio per i fan che come reale esigenza di sceneggiatura.
Così, anche qui vengono fatte scendere due ragazze dal tavolo (non dal bancone), ma non sono nude, in perfetto stile più sobrio.
Su alcuni punti, la trama appare un po’ approssimativa.
Come l’originale, la scelta è per il degenerare puro e semplice.
Coerente l’escalation, coerente l’ambientazione. Se a fine anni 80 a farla da padrone erano cattivi di stampo latifondista, di mezza età e spesso ossessionati con collezioni e trofei, nel 2024 bisogna arrendersi a figli di papà che gestiscono un impero del crimine ereditato.
Impreparati, impacciati, ridicolizzati.
Sorprende che un regista di valore come Doug Liman si sia accodato alla moda del momento.
Per quanto sia meno profondo dell’originale, Road House è un film gradevole che non si prenda troppo sul serio, che inquadri tendenze filmiche del momento, senza rinunciare a tratti cari all’originale, dimostrando che è possibile ottenere un buon lavoro di remaking, ma non è un caso se il novero dei rifacimenti sia così esteso e abusato.
Never beat the classic.
Lorenzo Cuzzani