Christian Wolf non sbaglia mai…
Gavin O’Connor sorprende un’altra volta dopo Warrior
Il catalogo Netflix si arricchisce.
Finalmente una pellicola diversa nel mare di propaganda ideologica propinata dal colosso oltreoceano.
Surreale.
O forse concreto come pochi.
Il filo che lega lo svolgimento della pellicola appare a volte sottile, altre ben delineato, altre ancora inesistente. Forse è questo che rende “The Accountant” un capolavoro.
Un contabile sui generis è affetto da un altrettanto singolare forma di autismo che sembra essere sia la sua debolezza, sia la sua più grande forza. Da un tale handicap è derivata una grande disciplina, condita da una professionalità al limite di ogni umana previsione.
Ben Affleck interpreta un personaggio mono espressivo, quasi sempre asettico, distaccato, vittima e carnefice di un disturbo comportamentale che lo rende incline a un regime atarassico, salvo lasciare ampi spazi a un’etica del bene in quanto tale. Peculiare, scevra da risvolti buonisti, fondata su una bontà elementare, orientata al risultato.
La regia di Gavin O’Connor (Miracle, Pride an Glory, ma soprattutto Warrior) è improntata sulla confusione chiara, sull’utilizzo di flashback didascalici che illuminino i numerosi angoli d’ombra della storia, il cui sviluppo appare per lungo tempo complesso e difficile da seguire, ma non per questo dai risvolti meno seducenti.
Lo sceneggiato segna un continuum con le precedenti opere di O’Connor, pervase di un’ambivalenza e una duplicità in termini di avvenimenti e personaggi non indifferente: qui il dinamismo paradossale è tutto in capo al protagonista.
Nel corso della sua vita Christian Wolf non ha mai potuto scegliere, essendo costretto a subire un certo tipo di formazione, proiettato in una dimensione rigida che non ammetteva riflessione o cambio di rotta, il tipo di contesto che l’ha reso quello che è, per il quale ha semplicemente compiuto l’unica scelta possibile: una scelta obbligata non è mai davvero una scelta.
Il ribaltamento narrativo arriva dalla possibilità per Christian di poter scegliere, anzi, di voler scegliere, quasi, anche qui, un dover scegliere, ma stavolta la doverosità della sua scelta proviene da una percezione umana, un sentimento forse, una sensazione che non ha mai provato e che decide di assecondare, permettendo al proprio io di trascendere il valico di fredda indifferenza verso il genere umano che ha sempre avvertito, salvo nei casi di bontà elementare, per i quali la sua etica di bene fine a se stesso appare collegarsi a un primitivo concetto di giusto e sbagliato.
Il suo concetto.
La scelta che il contabile Wolf realizza altera il corso della sua esistenza, esponendolo a rischi e situazioni in cui mai si era prefisso di entrare, dandogli l’occasione di cambiare la propria vita, o almeno, di darsi la chance di vivere in maniera più coinvolta.
Questo gli dona una libertà che mai aveva avuto prima, sentendo di vivere per uno scopo superiore, un fine che solo una volta aveva perseguito, ma in maniera distruttiva e ossessiva, dimostrando allo spettatore un’emotività terribile.
L’amore appare qui come una variante eterea nella pellicola, non toccando canoni di maturazione classici, ma non per questo meno permeante.
Tra spunti thriller e di film d’azione, c’è spazio anche per il nobile sentimento.
Non consumato, mediato, ma non per questo meno profondo.
Il film si arricchisce di colpi di scena continuativi, specie nell’evoluzione conclusiva della storia, senza pagare dazio in termini di credibilità. Sono proprio i colpi di scena finali a far luce sul corso degli eventi, ottimamente strutturati ma difficilmente prevedibili.
L’epilogo ospita una suprema fotografia concertata da una toccante melodia. Christian pare tornare dove è partito: ovunque e da nessuna parte.